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Storia dell emigrazione siciliana
Quasi contemporaneamente alla pubblicazione di questi nuovi testi i critici hanno preso a indagare sulle voci più antiche, ricostruendo la carriera letteraria, cinematografica o teatrale dei siciliani nel Nuovo Mondo. Tali indagini hanno evidenziato come la figura del siciliano nel Nuovo Mondo sia ad un tempo vero e proprio topos del cinema e delle letterature d’oltreoceano, spesso sfruttato da autori che non sono di origine siciliana. Esse inoltre hanno mostrato come la figura del siciliano sia anche divenuta un elemento portante delle culture italo-americane, al punto di essere mitologizzata dall’enorme successo de Il padrino (1969) di Mario Puzo. Ora proprio lo scrittore in questione si è sempre definito di origini napoletane e ha dichiarato di aver scritto The Godfather esclusivamente per soldi. La sua opera e il successivo adattamento cinematografico, cui ha sempre collaborato, hanno riscosso una grande eco, ma anche non poche critiche dai siciliani d’America. In ogni caso a questo punto la figura del siciliano emigrato è divenuta un richiamo cui gli stessi siciliani di Sicilia non hanno saputo resistere, sia pure per ironizzarvi in un modo agro-dolce. Se Daniele Ciprì e Franco Maresco intitolano una loro pellicola allo zio d’America di tutte le famiglie dell’isola, Andrea Camilleri ritrae il perfetto migrante come una figura che ha perso tutto, persino la sua identità, pur avendo avuto una vita di successo, e alla fine si uccide nell’isola per ridare senso alla propria esistenza.
Il coacervo di testi (e film) appena citati ruota attorno al problema dell’identità siciliana: identità dell’emigrato, ma anche di chi è rimasto; evoluzione identitaria del primo al contatto con mondi nuovi e del secondo dentro a un’Italia che cambia e di fronte a quanto gli emigrati riportano nell’isola. Se riandiamo alla letteratura scientifica, in particolare a quella del secondo Novecento, sui singoli e sulle comunità emigrate dall’isola al Vecchio e al Nuovo Mondo ci accorgiamo come i titoli mirino sempre alla definizione di cosa sia il siciliano all’estero (e cosa il siciliano in patria), secondo uno schema già approntato agli inizi del secolo scorso, mettendo in rilievo la compattezza del nucleo emigrato e il ruolo in esso giocato dall’essere numerosi: come sottolinea Luigi Capuana nel suo romanzo d’emigrazione, i siciliani all’estero sono così tanti che persino New York diventa alla domenica una propaggine del paese di partenza.
In effetti la discussione tardo novecentesca sull’emigrazione siciliana si concentra sui caratteri “antropologici” delle comunità all’estero, mentre soltanto pochi contributi valutano perché si sia partiti e dove si sia andati. Quello che ha veramente interessato gli studiosi è come i siciliani si siano adattati ai luoghi di accoglienza, come abbiano reagito a rifiuti e segregazione, come abbiano talvolta scelto l’illegalità per affermare il proprio diritto ad esistere. Allo stesso tempo l’adattamento è stato letto alla luce di quanto avvenuto nell’isola o, viceversa, per capire quali effetti abbia sortito l’incontro con l’Europa o le Americhe nelle comunità emigrate e persino in quelle di partenza. Tali conseguenze sono poi indagate a livello socio-economico o sociale e psicologico. Da questa ultima opzione deriva tra l’altro la notevole curiosità per le forme di associazione o comunque di incontro all’estero e per le trasformazioni della religiosità considerata un vero e proprio elemento di identificazione nella realtà di emigrazione. In entrambi i casi, secondo gli studiosi, le forme di associazionismo regionalistico o religioso avrebbero rafforzato e anche simboleggiato i legami con la regione di origine o comunque la nostalgia per questa.
La saggistica sinora discussa ruota dunque attorno alla definizione di cosa voglia dire essere siciliano e trascura la dimensione storica del fenomeno migratorio dalla Trinacria. Eppure proprio questa dimensione è assai importante, perché la Sicilia è stata l’ultima regione italiana a partecipare al grande esodo migratorio di fine Ottocento ed è attualmente la regione con più emigrati all’estero. Prima dell’ultimo quarto dell’Ottocento i movimenti di siciliani verso l’estero erano ridottissimi e non facevano presagire il boom successivo. Soprattutto nel primo decennio dell’Ottocento la fuoriuscita di manodopera diventa massiccia e, pur registrando regolarmente almeno un terzo di rientri, trasforma l’isola in un luogo di fuga.
Proviamo dunque a verificare cosa avvenisse in Sicilia prima di questa dirompente rottura. Durante il medioevo e l’età moderna, l’isola è terra d’immigrazione per antonomasia, tanto che oggi alcuni storici considerano fenomeno migratorio pure quello che una volta era etichettato come invasione. Al di là di questi aspetti più eclatanti, possiamo dire che nei secoli medievali la Trinacria attirava migranti dalla Penisola (in particolare dal centro-nord – per esempio da Pisa, Genova e Lombardia – e della vicina Calabria), dall’Europa (in successione normanni, tedeschi, angioini e aragonesi) e persino da Mediterraneo sud-orientale.
Secondo Maurice Aymard, fino all’Ottocento l’isola è aperta a ogni tipo d’immigrazione. Abbiamo già segnalato l’arrivo di toscani, liguri e lombardi nel tardo medioevo, ma non dobbiamo dimenticare altre correnti. In primo luogo possiamo menzionare gli schiavi africani (nelle campagne isolane sino a metà Cinquecento) e i greco-albanesi, che si trasferirono in Sicilia dopo il 1450 formando quattro o cinque villaggi. In secondo luogo possiamo ricordare gli arrivi dei nobili aragonesi, del personale amministrativo castigliano, dei mercanti e banchieri catalani, in particolare di Valencia, e dei mercanti e banchieri dell’Italia del Nord (di nuovo soprattutto lombardi, genovesi, toscani) che si installarono a Palermo e Messina e distribuirono loro agenti in tutta l’isola, infine degli ingegneri militari e dei laureati delle università del Nord Italia. In terzo luogo registriamo l’ingresso di piccoli artigiani, piccoli commercianti e salariati: tale immigrazione è cospicua già nel Trecento e cresce, fluttuando, attorno a nuclei stabili. All’interno di questi flussi, che provengono, come quelli mercantili, dalla Lombardia, dalla Riviera ligure e, ma a un livello più basso, dalla Calabria, ci si organizza in comunità riconosciute. Il che, aggiunge Aymard, non impedisce di assimilarsi soprattutto per mezzo del matrimonio. In quarto luogo la Trinacria attira a cavallo tra Quattro e Cinquecento gruppi di biscaglini che importano ferro dalla loro regione d’origine e in seguito lavorano nelle miniere locali, spesso trasferendosi definitivamente e chiamando le proprie famiglie.
Rispetto agli immigrati i siciliani di antico regime sembrano poco disposti a spostarsi, se non dentro l’isola o per casi particolari. A metà Cinquecento il reclutamento di manodopera siciliana per le fortificazioni sulle coste del Nord Africa procede con difficoltà. Analogamente va a vuoto un tentativo spagnolo di assegnare terre da colonizzare in Brasile nel 1613. Soltanto la pesca porta i siciliani lontano, persino oltre le colonne d’Ercole. Mentre il fallimento delle rivolte antispagnole nel Seicento provoca una diaspora verso la Francia e le sue colonie. Aymard ritiene che questo tenace radicamento sia un fattore culturale più che economico e tuttavia non bisogna sottovalutare la tendenza ad abbandonare la campagna nel Seicento per inurbarsi a Palermo. Probabilmente siamo di fronte a un fenomeno conservativo tipico dell’ancien régime piuttosto che a una speciale costellazione psicologica. Gli spostamenti a breve e l’inurbamento non distruggono infatti l’organizzazione rurale delle zone di provenienza. La maggioranza della popolazione maschile adulta emigra in cerca di migliori opportunità di lavoro e s’inserisce in attività terziarie che l’organizzazione “coloniale” siciliana lascia libere. Grazie alla permanenza di legami strettissimi con i villaggi di provenienza si crea una sorta di monopolio su certe attività da parte degli emigrati provenienti da determinate aree subregionali. Questo controllo fa sì che la migrazione non provochi perdita di braccia nelle zone di partenza, ma sia funzionale allo scambio reciproco.
Alla fine del Settecento e durante l’epoca napoleonica tale tendenza alle migrazioni conservative trova nuove conferme. Ai pochi contadini che prendono la via dell’estero, grazie allo svincolo dalla terra reso possibile dalle riforme del viceré, si contrappone la quantità di émigrés continentali in fuga dall’occupazione francese, un’immigrazione di tipo politico che assomma dalle diecimila alle trentamila unità. È inoltre rilevante la presenza dei mercanti inglesi intorno all’epoca dell’occupazione britannica. Durante la successiva reazione borbonica si riscontra invece un’aumentata tendenza a partire, soprattutto dopo i moti del 1821. In questo contesto alcuni esiliati si stabiliscono a New York e organizzano un lucrativo commercio di frutta con la madrepatria. Un’altra ondata di esuli si registra infine dopo il 1848. Nel frattempo l’emigrazione economica è assai ridotta, mentre ancora dopo il 1860 l’isola attira immigrati.
Il quadro delle migrazioni nella Sicilia d’antico regime si completa con un fenomeno di lungo periodo di ben maggiore rilevanza, la mobilità interna secondo modalità e cronologie che qui è impossibile approfondire. In generale l’origine di questi spostamenti risale al Cinquecento, allorché i baroni iniziano a ripopolare i feudi in coincidenza con l’incremento delle esportazioni del grano. Vi è dunque un rilevante spostamento di popolazione dalle terre demaniali a quelle baronali e lo sviluppo o la creazione di borghi rurali in cui i contadini senza terra vengono accentrati e sfruttati, soprattutto nel Seicento. Questa situazione si perpetua, dopo le leggi di eversione della feudalità (1812), nell’organizzazione del moderno latifondo: la popolazione contadina tende infatti ad accentrarsi nei centri rurali maggiori secondo il modulo abitativo delle agrotowns.
Nella lunga fase preunitaria la popolazione siciliana cresce notevolmente, aumentando del 45% tra il 1798 e il 1861. A causa dell’estrema povertà dei contadini della Sicilia centrale, dovuta alla crisi del grano e al grande sfruttamento, i flussi interni si modificano e dalla colonizzazione delle suddette aree centrali ci si riorienta verso le zone costiere, secondo un processo già iniziato nel Settecento. Sulla costa infatti la proprietà è maggiormente suddivisa e si va sviluppando la coltura degli agrumi. In queste zone l’immigrazione incrementa in maniera sostenuta la popolazione, mentre cala il numero degli abitanti nelle aree a latifondo, nonostante che la spinta migratoria abbia ancora un peso inferiore rispetto alle logiche demografiche dei villaggi e queste ultime siano legate alla domanda dei prodotti d’esportazione, ai prezzi e alle strutture sociali. Il popolamento delle varie aree dipende in definitiva dalle oscillazioni di un’economia di mercato che vede la Sicilia esclusivamente come area di produzione. In fondo potremmo dire che lo sviluppo dell’agrumeto sia ad un tempo un’innovazione e “l’altra faccia del latifondo”. Un secondo rilevante fenomeno demografico della Sicilia ottocentesca è la crescita di Palermo, Catania, Messina e altri centri urbani che accolgono le popolazioni delle campagne in crisi. Le città non possono offrire, però, lavoro per tutti e divengono serbatoi per la successiva emigrazione.
La mobilità interna, come è stato sottolineato da Renda, sembra dunque essere un carattere originale e rilevante della distribuzione della popolazione e dello sviluppo stesso della Sicilia di antico regime. La grande esplosione migratoria di fine Ottocento – inizi Novecento si pone in una relazione di continuità con questa mobilità. La crisi agraria di fine secolo, provocata dal crollo internazionale del prezzo del grano, colpisce anche quelle parti dell’isola che ricevono i flussi interni provenienti dalle zone del latifondo e che ora non sono più capaci di assorbirli e trattenerli. Inoltre l’eccedenza di manodopera non può essere assorbita dall’industria, visto che anche questa è fortemente intaccata dalla congiuntura. A questo punto le risorse interne sono esaurite e tutte le possibilità sono esplorate, tranne la diaspora oltreoceano. Il numero degli emigranti su lunga distanza, che si era contenuto di poco al di sopra delle 10.0000 unità annue, scatta a 15.000 nel 1893 e quindi aumenta quasi costantemente sino alla guerra mondiale. Inizialmente i flussi si dirigono verso la Tunisia, dove si spera di trovare terra, ma poi si orientano verso le Americhe, quando una legge del 1902 toglie agli italiani la possibilità di possedere appezzamenti.
Negli anni 1890 interviene un altro significativo fattore interno e cioè il fallimento del movimento dei fasci siciliani (1893-1894). La protesta è duramente repressa e provoca la cosiddetta “rivoluzione silenziosa”, cioè l’emigrazione dei braccianti e dei piccoli proprietari sconfitti: un flusso che si caratterizza al contempo come politico e di massa. Partono ovviamente anche molti capi del movimento e portano in America la propria esperienza politica. Alcuni in seguito rientrano nell’isola, è il caso per esempio di Bernardino Verro, e divengono un trait-d’union tra il movimento socialista italiano e quello americano. Questa rete politico-sindacale non soltanto trasporta idee nei due sensi, ma favorisce anche le successive ondate migratorie, assicurando ai partenti un sostegno oltreoceano.
Da questo momento l’emigrazione siciliana si connota in quanto tendenzialmente, ma non completamente, definitiva, come dimostra la partenza di molte donne e bambini. Molti emigranti politici non vogliono o non possono tornare. Inoltre una parte della diaspora lavorativa siciliana s’indirizza verso attività agricole nel Sud degli Stati Uniti che richiedono manodopera familiare. Tuttavia tali meccanismi rivelano mere tendenze: come già accennato un terzo degli emigranti regolarmente rientra, mentre le destinazioni rurali attraggono l’emigrazione stagionale in occasione dei raccolti, grazie alla accresciuta rapidità dei trasporti marittimi. A questo proposito non va sottovalutato il contributo all’esodo da parte delle zone non a latifondo e a coltura estensiva della Sicilia Orientale, così come non va dimenticato quello dalle isole minori. Qui ritroviamo una tipologia più simile al resto d’Italia, con piccoli agricoltori che cercano di sopperire alla crisi mediante l’emigrazione temporanea in Sud America, mentre i braccianti si dirigono in Nord America alla ricerca di un lavoro non specializzato nel settore delle costruzioni. Secondo Giuseppe Lo Giudice, Renda ha dato troppo peso alle cause endogene, mentre vanno attentamente considerate le cause esogene: l’attrazione degli alti salari nordamericani (la quale stimola la partenza non soltanto di braccianti ridotti alla fame, ma anche di contadini che vogliono migliorare le proprie condizioni rese più pesanti dalla crisi), la rivoluzione dei trasporti e la chiusura dello sbocco tunisino nel 1902.
L’evoluzione novecentesca dell’emigrazione siciliana vede un rallentamento e un aumentato numero di ritorni all’epoca della Grande guerra, poi una ripresa brusca nell’immediato dopoguerra prima della chiusura dello sbocco statunitense e della politica anti-emigrazionista del fascismo. Durante il ventennio si registra, però, un numero altissimo di spostamenti verso il Nord della penisola e, dopo la guerra, questo nuovo orientamento è confermato dalle partenze verso il triangolo industriale italiano e il mercato del lavoro europeo (prima la Francia, poi la Germania e la Svizzera). Dopo il 1945 le destinazioni transoceaniche si rivelano insoddisfacenti e nel complesso le partenze verso di esse sono inferiori a quelle a cavallo tra Otto e Novecento, pur se i siciliani proseguono ad affluire negli Stati Uniti e in Australia. In ogni caso il secondo Novecento conferma il processo di deruralizzazione della Sicilia (a parte alcuni nuclei di produzione intensiva per l’esportazione) e l’esodo dalle campagne verso le fabbriche del Nord o verso le città dove lo sviluppo del settore terziario ha indotto un vero e proprio boom dell’edilizia. La crisi dell’occupazione degli anni 1970 comporta il ritorno degli emigranti e la difficoltà a partire (o ripartire), ma questo non ha significato un recupero di antiche attività, come prova l’impiego di manodopera africana immigrata nei mestieri più duri dalla pesca ai raccolti. Infine all’alba del nuovo millennio una crescente immigrazione soprattutto mediterranea si accompagna alla ripresa dei flussi verso l’estero. Allo stesso tempo la regione siciliana stringe nuovi rapporti con le sue comunità all’estero, tentando di sfruttarne gli elementi che hanno fatto carriera politica e che possono offrire un sostegno nei varie paesi di arrivo.
L’aspetto che si vuole qui sottolineare dell’emigrazione siciliana, le cui fasi andrebbero ovviamente maggiormente approfondite, è il suo carattere originale, determinato dalla combinazione di fattori derivanti sia da elementi propri della storia dell’isola, sia dai tempi del fenomeno migratorio. Da un lato, infatti, sembra mancare quasi completamente la fase di emigrazione “di mestiere”, che in altre regioni ha preparato i flussi di massa. Una ricerca di qualche decennio fa mostra come da Corleone sia partito per gli Stati Uniti qualche artigiano, ma di basso livello, mentre la grande maggioranza degli emigranti era costituita da contadini offertisi come manodopera non qualificata. Dall’altro, a causa della prevalenza del latifondo, la migrazione temporanea maschile resta fortemente minoritaria e limitata alle aree orientali. La prospettiva del ritorno con denaro sufficiente per acquistare un piccolo appezzamento è sempre presente, legata come è ad un’idea di promozione sociale radicata nella società contadina, ma per il bracciante che parte è inevitabile portare con sé tutta la famiglia, perché quest’ultima non potrebbe mantenersi da sola.
Da un punto di vista demografico i flussi migratori rallentano sino al 1971 il trend di crescita della popolazione siciliana. Di conseguenza la transizione demografica in Sicilia passa anche per la transizione migratoria. Da un punto di vista economico, le entrate del lavoro all’estero sono dapprima utilizzate per acquistare proprietà, il “sogno proibito” del bracciante del latifondo destinato in buona parte a restare tale a causa del notevole incremento del prezzo della terra. In seguito, soprattutto in occasione del secondo boom dell’emigrazione siciliana negli anni Cinquanta verso l’Europa e l’Italia settentrionale, si preferisce un guadagno meno aleatorio e un lavoro stabile e sicuro che esclude la possibilità del ritorno, ma consente l’inserimento in una società che offre maggiori possibilità di uscire (o almeno di far uscire i figli) dalla povertà. Inoltre anche nelle partenze degli anni 1950 c’è un elemento che ricorda quelle di fine Ottocento. Se allora aveva giocato il fallimento del movimento dei Fasci, nella definitività della scelta migratoria conta la sensazione di una nuova sconfitta politica e il ruolo dell’illegalità mafiosa come garante degli equilibri di potere. Si parte dunque perché non si può influire sullo sviluppo democratico dell’isola e perché ci si vuole allontanare dalla Mafia.
Questo abbandono della dimensione rurale (ma anche di quella isolana) segue le tappe dell’evoluzione del fenomeno migratorio: è teoricamente assente, anche se poi di fatto in parte realizzato, all’epoca del primo flusso: è latente, anche per la difficile determinazione del fenomeno, durante il periodo fascista; è largamente preponderante nel secondo dopoguerra. Nel processo di destrutturazione della società contadina e nello sradicamento dell’emigrante dalle proprie origini, entra infatti in gioco in modo decisivo la nuova tipologia dell’emigrazione moderna che vede prevalere le partenze definitive verso le grandi città, l’esodo che ha caratterizzato dal 1925 tutto il Mezzogiorno. Peraltro, i legami dei siciliani con l’isola d’origine hanno continuato ad essere molto forti grazie alla stretta unità antropologica e ai contatti mantenuti mediante le catene di richiamo dell’emigrazione, nonché nei decenni più recenti le politiche della Regione siciliana, che dal 1975 inizia a interessarsi al problema migratorio. Al di là della dimensione culturale in cui si possono rinvenire alcune caratteristiche dei fenomeni di antico regime, sembra tuttavia di poter scorgere nell’emigrazione siciliana una tipologia non diversa dall’espulsione di manodopera indifferenziata che attualmente spinge numerosi africani verso la Trinacria. I tentativi, pure segnalati, di emigrazione di contadini siciliani che si spostano per coltivare la terra altrove, sia in America (Texas e Louisiana) sia in Italia, sono casi relativamente esigui del mantenimento di una “professionalità” di agricoltori. La grande maggioranza deve mettere invece sul mercato la propria forza lavoro e indirizzarsi verso lavori non specializzati.
Ricapitolando e schematizzando, l’emigrazione siciliana è un esempio, all’interno di un ambito geografico circoscritto, della moderna tipologia del fenomeno che si presenta tuttavia in tre fasi ben distinte. La prima, fino grosso modo al 1925, ha un elemento rilevante che la può assimilare all’emigrazione di antico regime, cioè l’idea prevalente del ritorno al paese (che spesso tuttavia non può attuarsi). Certamente però, il carattere di massa, l’assenza di una caratterizzazione di mestiere, la prevalente destinazione verso lavori di fabbrica non specializzati, le danno forti connotazioni di emigrazione moderna. Dopo il 1925 e fino alla crisi dei primi anni 1970, anche la prospettiva del ritorno, del successo da godere nella propria terra, decade a vantaggio dell’inserimento nelle aree di destinazione e l’emigrazione assume sempre più importanza nella destrutturazione della società agricola siciliana. Infine la terza fase, tra la fine del Novecento e gli inizi del nuovo millennio, sembra collegata soprattutto alla difficoltà per i giovani diplomati e laureati di trovare il lavoro richiesto e alle maggiori possibilità di movimento in ambito europeo.
Anche la costruzione delle comunità all’estero e l’elaborazione dei loro tratti culturali corrisponde a questi passaggi. Nella prima fase non sembra infatti esserci una dichiarata volontà di ricreare all’estero la propria comunità. Come ricorda Capuana, i siciliani oltre oceano sono tanti, ma non vogliono fondare una Sicilia all’estero. D’altronde una campagna antropologica di primo Novecento evidenzia come gli abitanti della Trinacria si distinguano in loco in base al villaggio d’appartenenza, in Italia si ritengano siciliani e fuori d’Italia si definiscano italiani. Un’ulteriore testimonianza in questo senso è offerta dalla biografia di Vincenzo Sellaro, nato a Polizzi Generosa nel 1868 e morto a New York nel 1932. Dopo essersi laureato in Medicina a Napoli nel 1895, varca l’oceano e fa carriera nell’ospedale italiano di New York. Attivo massone nel 1904 inizia a pensare alla creazione di un unico organismo per raggruppare tutti gli italiani e nel 1905 fonda la Supreme Lodge of the Sons of Italy, ancora oggi attiva come Order Sons of Italy.
Nei primi tre decenni del Novecento il vecchio quartiere per immigrati irlandesi di Chicago diventa progressivamente una Piccola Italia meridionale e si trasforma in Little Sicily, dove si inurbano pure coloro che inizialmente si erano recati nei campi della Louisiana. È in insediamenti di queste dimensioni che tra le due guerre si inizia a porre il problema di comportamenti “siciliani”, come narra Jerre Mangione. In queste comunità si re-inventano le tradizioni familiari e si obbligano i membri a sottostare a controlli forse maggiori che nei luoghi di partenza e tuttavia a lungo andare si tollerano le eterodossie di prime e seconde generazioni. Inoltre l’apparente compattezza dei costumi “isolani” è in realtà minata anche dalle micro-contrapposizioni in base ai luoghi di partenza, per esempio dal contrasto tra messinesi e palermitani. Insomma la storia dell’emigrazione siciliana e delle culture da essa nate rivelano all’analisi realtà molto frastagliate e forse ancora da apprezzare in tutto il loro valore.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]